Psicorock: storie di menti fuori controllo, intervista all'autore

Psicorock è un libro che raccoglie una serie di storie al confine tra la psichiatria e la musica rock: l'intervista a Gaspare Palmieri

Cominciamo con una domanda di routine ma che è fondamentale per iniziare a parlare del suo libro:

 

Di cosa parla Psicorock?        

Psicorock, storie di menti fuori controllo è un libro che raccoglie una serie di storie psicobiografiche al confine tra la psichiatria e la musica rock (e non solo). Ho raccolto negli anni storie di musicisti noti che hanno avuto problematiche psichiatriche e le ho riportate nel libro, analizzando in che modo queste abbiano influenzato la loro produzione artistica. Alcuni casi sono molto conosciuti come quello di Amy Winehouse o di Curt Kobain, altre un po’ meno note come quella di Nick Drake. Ci sono anche alcune interviste a musicisti che hanno raccontato delle loro esperienze psichiatriche facendo una sorta di coming out, tra queste spicca quella a Sinead O’Connor.

 

Sul fatto che la musica faccia bene alle persone si è tutti d’accordo, ma siamo sicuri che faccia bene anche agli artisti? Moltissimi musicisti hanno fatto della loro sofferenza il loro successo, la strada attraverso cui comunicare il loro disagio esistenziale, ma poi ne sono usciti?  

Mah la musica non credo faccia male, forse fa più male fare il musicista! Leggendo le storie degli artisti ci si rende conto come la professione di rockstar sia un lavoro duro e fonte di grande stress. Nel libro riporto uno studio che ha rilevato come i musicisti rock abbiano una mortalità maggiore rispetto alla popolazione normale, per intenderci come i militari piloti di caccia o altre professioni a rischio. L’aspettativa del pubblico e dell’ambiente, i ritmi di vita spesso irregolari, i periodi di forte impegno alternati ad altri di vuoto possono rappresentare tutti fattori di forte stress che se trovano aspetti di vulnerabilità personale nell’artista possono dare luogo a disturbi e disagi. Pensa che in Inghilterra hanno creato un servizio che si chiama SOS musician specializzato nel fornire aiuto psicologico ai musicisti e stanno addirittura formando i manager musicali a fornire una sorta di counselling. E’ innegabile comunque, soprattutto in certi periodi del passato, che una certa immagine di artista decadente o maledetto trovava una sua funzionalità al successo e diventava una sorta di rinforzo a condotte comportamentali poco salutari. Nel libro riporto un articolo che sottolinea come invece al giorno d’oggi convenga di più all’artista mostrare una parte sana e magari sottolineare il suo percorso di redenzione o risalita.

E qui le faccio una domanda che viene posta anche nel suo libro: la musica può costituire una trappola per l’artista nel momento in cui il pubblico gli richiede continuamente la stessa tipologia d’espressione, di  emozione,  creando così un circolo vizioso?

Sì è un fenomeno che può presentarsi e in questi casi è fondamentale la struttura psicologica dell’artista e la presenza o meno di importanti fragilità. A questo riguardo uno dei casi a mio avviso più drammatici è stato quello di Amy Winehouse, che è stata letteralmente cannibalizzata dai media e scarsamente protetta dal padre manager, con il risultato che si è curata con grandissima difficoltà per i problemi psichiatrici e per le dipendenze da cui era affetta. La Amy ubriaca faceva sempre notizia e di conseguenza aumentava l’interesse commerciale per la sua musica, ma contribuiva ovviamente al suo processo di autodistruzione.

 

Alcune ricerche, mostrano come ci sia una grande correlazione fra la creatività e la psicopatologia, in quest’ottica l’artista rimane imbrigliato nel ruolo di persona sofferente ai margini della società, se non fisicamente di certo emotivamente, viene intesa come quella persona che può esprimersi solo attraverso l’arte. La società odierna però, ci ha mostrato che questo concetto è solo parziale, allora nella sua esperienza clinica, e dopo aver scritto questo libro che idea si è fatto dell’artista? Chi è per lei l’artista?

L’artista è una persona dotata del dono di poter esprimere o creare qualcosa di unico e speciale per la collettività attraverso un’arte. A volte il prezzo da pagare per possedere questo dono è possedere una sensibilità più spiccata e di conseguenza essere più fragili. Statisticamente tra i musicisti e tra gli scrittori ci sono livelli di disagio psichico superiori rispetto alla popolazione che è impiegata in altri mestieri. L’idea che mi sono fatto è comunque che per creare bisogna stare sufficientemente bene. Sono tante le testimonianze di artisti che raccontano ad esempio come l’avere interrotto abusi di sostanze o alcol abbia migliorato le proprie capacità creative, per non parlare delle performance. 

 

Sfatiamo un mito: andare dallo psicologo fa perdere la vena creativa all’artista?

Assolutamente no. Nella mia esperienza clinica ho potuto costatare che persone creative che attraversavano periodi di grande sofferenza emotiva faticavano molto a coltivare la propria arte. Attraverso le cure sono riusciti a raggiungere un equilibrio accettabile che gli permetteva di svolgere il proprio lavoro in modo soddisfacente. La creazione artistica richiede costanza e dedizione che a loro volta necessitano di uno stato mentale sufficientemente equilibrato e lucido.

 

La musicoterapia basa il suo lavoro sul linguaggio non verbale, sull’espressione corporea ed emotiva, andando a ricollegarsi col mondo dei vissuti infantili dove tutto era percezione e non si divideva il mondo in compartimenti stagni. Secondo lei allora l’artista è colui che riesce a vedere il mondo, per quanto sia possibile, ancora in questo modo?

Vedere e riprodurre il mondo senza filtri e sovrastrutture, con spontaneità e autenticità è sicuramente una delle possibilità espressive dell’arte. Oltre che nei bambini, anche in certe forme di psicosi ritroviamo questo tipo di visione. L’arteterapia in particolare la cosiddetta Art brut comprendono tanti esempi in questo senso. A mio avviso accanto a questa irrinunciabile dimensione istintuale ed immediata c’è anche tutta la dimensione del simbolico e della metafora utilizzata in modo artistico che richiede forse un processo elaborativo più complesso.

 

La musica in terapia, nella sua esperienza, quanto è stata utile per scardinare strutture cognitive troppo rigide e/o blocchi emotivi che impedivano il benessere dei suoi pazienti?

Uso costantemente la musica e più in particolare la canzone, come facilitatore relazionale in particolare nella dimensione gruppale con i pazienti psichiatrici. Dalle nostre osservazioni il parlare di sé attraverso le canzoni favorisce l’introspezione, la consapevolezza e aiuta ad accettare meglio vissuti particolarmente dolorosi. Scrivere canzoni insieme, il cosiddetto songwriting, è un altro modo molto efficace di condividere i propri vissuti e di costruire qualcosa insieme, anche senza possedere competenze musicali specifiche. Sono gruppi molto coinvolgenti, emozionanti, a volte divertenti e questo non è poco nei contesti riabilitativi psichiatrici dove la noia, la mancanza di entusiasmo, la cronicità sono all’ordine del giorno. 

 

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